Julio Sergio Bertagnoli, ex portiere della Roma, è intervenuto in esclusiva ai microfoni di Tele Radio Stereo. Ecco le sue parole:
Sulla sua esperienza a Roma e sullo scudetto sfiorato nel 2010.
“Purtroppo succede. Non sono mai stato un fenomeno, ho giocato 60-70 partite con la maglia della Roma ma avere questo rispetto dalla gente e questa empatia nonostante ci fossero dei fenomeni non è mai semplice. Mi fa davvero piacere“.
Chi sono i fenomeni?
“I fenomeni sono quelli che sono indimenticabili. Il fenomeno della Roma dei tempi moderni è Francesco Totti. Daniele De Rossi ha fatto il suo ruolo come pochi, per me è stato per 3-4 anni il miglior mediano al mondo: riusciva ad avere una condizione perfetta di gestione della passione e del calcio. Ora tutto è cambiato: ci sono i telefonini e i social, è cambiata la vita ed è un calcio diverso“.
In che modo è arrivato a Roma?
“Ho giocato con Zago in Brasile, due volte, al Santos e al Juventude. Abbiamo un’amicizia importante, di famiglia. Mi ha segnalato, parlando con la Roma e con il procuratore Lucci, che è stata una persona fondamentale per la mia carriera e un grande amico. Sono arrivato per un provino ad aprile 2006, dovevano essere 2-3 settimane ma poi sono rimasto fino alla fine. Poi sono rientrato e sono tornato a inizio luglio, quando mi hanno detto che mi avrebbero fatto un anno di contratto“.
Quale è stata la prima impressione di Trigoria?
“Dovevo essere qui, per esempio, il 15 luglio. Due giorni prima mi hanno detto di spostare per il 21, ma già avevo preso il biglietto e sono venuto lo stesso. Mi sono goduto la città, poi mi sono presentato a Trigoria. Sono entrato in uno spogliatoio pesante, nonostante ci fosse un minimo di rapporto: c’era Dacourt, Totti, Cufré, Panucci, Montella. Giocatori che vedevo in tv o alla play-station. Era un altro livello di giocatori rispetto al Brasile, eppure lì avevo vinto due scudetti. Mi hanno fatto subito inserire. Panucci con me è stato sempre un signore, una persona molto intelligente. Totti era già Totti, aveva vinto il Mondiale. Avevo 26 anni ed ero appena entrato in un posto che avevo voluto per tutta la vita“.
Prima di partire qualcuno le ha dato dei suggerimenti?
“Non ne ho parlato molto, era un sogno ma mi sentivo pronto per questo. All’epoca ero fidanzato con la madre dei miei figli, lei faceva l’università e quando sono arrivato si doveva laureare. Parlavamo per telefono, mi ha detto che si sarebbe trasferita se ci fossimo sposati. Così è stato, ci siamo sposati a dicembre ed è venuta a Roma. I miei figli sono nati qui. A Roma ho vissuto soddisfazioni che neanche in Brasile, nonostante i due scudetti, sono stati simili“.
La parata nel derby è più istinto o tecnica?
“Ero 1.85, oggi nel calcio moderno i portieri come me fanno fatica a trovare un posto importante. In compenso ero molto reattivo e veloce, avevo molta forza nelle gambe. Giorgio Pellizzaro, che purtroppo non c’è più, oltre alla fiducia mi ha dato tanto. Avevo giocato contro la Juve, poi era stato esonerato Spalletti e Doni era infortunato. Ho ripagato la fiducia con delle prestazioni, ma è stata l’unione di tutto. Avevo tre anni con la Roma e avevo fatto una partita a Leverkusen, un’amichevole. Mi ero preparato per quell’anno, ero in scadenza e sapevo che se non avessi giocato difficilmente sarei rimasto. Volevo anche godere di qualcosa in campo, non solo della vita che mi ha offerto la città. Non credo nella fortuna dal nulla, devi cercare di andare a trovarla e poi le cose possono succedere. In allenamento riuscivo a essere concentrato e tranquillo, quando entravo in campo ero lì. Facevo molta fatica nelle partite, perdevo tre chili e anche il mio recupero era più lento degli altri. Per questo sono arrivati anche degli infortuni. L’istinto ci vuole, ma per poterci essere istinto devi stare bene: è tutta questione di allenamento e di testa“.
C’è una scelta che ha fatto e che non rifarebbe?
“Una sola: quando mi ha chiamato il PSG. Mia figlia stava per nascere, eravamo in ritiro a Brunico e mi ha chiamato Leonardo: mi ha chiesto se volessi andare lì per un anno in prestito con diritto di riscatto, da vice, dicendomi che aveva già parlato con Sabatini. Loro avevano preso Areola e Menez, oltre ad altre gente. Volevo andare, avevo detto di sì. Poi è venuta fuori la cosa di Di Francesco al Lecce, avrei fatto un anno con altri anni poi in Italia… ho fatto una scelta. Poi a Lecce mi sono fatto male subito e alla fine mi sono pentito, non sono riuscito a esprimere il mio valore. C’era Benassi, un bravissimo ragazzo. E’ una città bellissima con una società che aveva speso tanto per avermi, poi sono rientrato a Roma e la mia carriera è finita. Non c’ero con la testa. Sarei potuto andare a Parigi e poi magari a Lecce. Comunque non ho niente da rimproverarmi“.
Che cosa non ha funzionato con Spalletti?
“Quando sono arrivato Doni era arrivato da poco, lui aveva la fiducia dell’allenatore: era un grande portiere, giocava bene e poi è andato in Nazionale. L’ho raccontato anche oggi (ieri, ndr) a Trigoria. Una volta mi aveva cercato il Frosinone e altre squadre di Serie B, avevo uno stipendio basso appena arrivato. Le voci che giravano dentro Trigoria era che io forse non avevo la testa per fare la Serie A o la B in Italia. Tutti si tiravano indietro perché non avevo mai giocato, non riuscivo a mettermi in gioco per potermi far vedere. Ho fatto l’amichevole a Leverkusen, è stata positiva ma poi non ho giocato più. Nel ritiro 2009-10 non ho fatto presenze neanche in amichevole. All’inizio c’era Bonaiuti come preparatore, poi Pellizzaro e Nanni. Bonaiuti tecnicamente mi ha insegnato tanto, ma forse non mi vedeva come persona o carattere. In campo parlavo tanto, fuori non mi andava di fare certe cose. Poi è cambiato qualcosa in un allenamento veloce con i cross, ero un po’ arrabbiato per il fatto di non avere spazio e quindi ho mandato 2-3 persone a quel paese. A quel punto forse hanno capito che non fossi uno ‘stupido’“.
Ci racconta quella partita a Brescia?
“Mexes era stato espulso. La città e la società mi hanno dato molto di più di quello che io ho dato a loro: un bel contratto, soldi, la città più bella del mondo. Ho conosciuto tribune e spogliatoi per tre anni, senza fare neanche un minuto. L’unica cosa che ho pensato lì è stata: ‘Col cavolo che mi levano da qui, solo se sono morto’. Non c’erano più cambi, perdevamo, venivamo dalla sconfitta di Monaco nonostante avessi fatto una partita buona. Non mi avrebbero mai tolto da quel ruolo, con una delle maglie più belle del mondo“.
Che Roma è quella di oggi, da allenatore?
“All’inizio dell’anno scorso sono stato qua, ho parlato con Daniele De Rossi e avevo visto una ripresa nella squadra. Forse mi aspettavo un inizio diverso, ma nel calcio ci vuole sempre tempo per fare delle cose. Guarda Klopp al Liverpool o Ferguson a Manchester. Non c’è una magia per vincere, servono soldi e organizzazione. Oggi vedo una squadra con valori individuali che crescono, giocatori che sono in condizione di fare una gara importante e di combattere, ma è sempre una rosa che si può migliorare. Sono passati i tempi in cui il calcio era uno sport individuale. Guardate il Brasile, tranne Raphinha e Vinicius non ci sono dei veri protagonisti nei club in giro per il mondo. Oggi si sono organizzati tutti, solo col talento non si vince. La tattica porta il giocatore nel posto giusto a esprimere il suo vero valore e la sua qualità, se non hai l’organizzazione è difficile bucare una squadra che si mette sotto-palla. Guardiola ha cambiato il calcio col suo modo di giocare. Vedo bene la squadra, siamo lì per arrivare in Champions: devono avere la forza finale di combattere per magari riuscirci“.
Quanto era forte Totti?
“Era un fuoriclasse, sembrava avesse gli occhi dietro la testa. Calciava come pochi. Come persona era sempre pronto a scherzare, non l’ho mai visto arrabbiato. Facevamo delle chiacchierate, diceva sempre che erano anni che non faceva una passeggiata in centro. Non era semplice essere così esposto. Fuori dal campo era una persona normale, in campo invece… lo sappiamo tutti“.
Ci dovrebbe essere più romanità giallorossa a Trigoria?
“La storia non si può dimenticare. Quando si arriva magari non si capisce cosa è Roma. Vito Scala mi ha detto che quando avrei smesso mi sarebbe mancato tutto questo, non ci credevo ma aveva ragione. Non ci rendiamo conto quando siamo qui di quello che è la Roma. Quando finisci, invece, ti manca l’ambiente che ti fa avere una vita molto piacevole. Ci sono problemi, come in tutti ovviamente, ma è difficile fare a meno di questa energia che c’è quando sei un giocatore della Roma“.
Svilar sta facendo davvero bene, c’è qualche altro portiere che pensi possa crescere nel futuro?
“Se lo dicessi, come farei a lavorare? I giocatori ci sono, ora dobbiamo capire tante cose. Come finiamo la stagione, se andiamo in Champions o in Europa League. Ho un rapporto abbastanza stretto con la Roma. Ranieri mi ha cambiato la vita, è sempre un signore. Lo chiamo ancora mister, a volte gli do ancora del lei e altre del tu. Quando fai il calciatore, anche se c’è un rapporto stretto, c’è sempre una gerarchia. Oggi invece è più leggero, è come se fosse una chiacchierata tra amici ovviamente con rispetto per la professione. Sono sempre stato legato alla società, loro mi hanno dato molto di più di quanto io abbia dato a loro. Con Thiago Pinto abbiamo avuto un rapporto ancora più stretto, abbiamo provato a fare delle cose che poi non sono andate a buon fine“.
Ha conosciuto Ghisolfi?
“Non di persona, ma spero di conoscerlo presto“.
C’è un profilo o un ruolo che potrebbe maggiormente interessare alla Roma?
“Ci sono giocatori, il problema è che oggi in Brasile i calciatori costano troppo. Guardate Endrick: sono colpi che solo il Real Madrid può fare, prendersi il lusso di spendere 60 milioni e poi lasciarlo lì. Non penso che la Roma una scommessa sia l’opzione principale, più un giocatore che ha una prospettiva importante“.
La Roma ha fatto bene a non perdere Marcos Leonardo, viste anche le sue scelte?
“E’ un giocatore che ha qualità, sicuramente. Non so se aveva la consapevolezza di capire che cos’è il calcio italiano, come accaduto a Gabigol che non è scarso e sta facendo benissimo in Brasile. Il calcio italiano è un gioco molto più coordinato e magari certi giocatori non hanno le doti per fare bene. Il mio lavoro, oltre a capire le capacità tecniche, è trovare anche tutte le altre condizioni per far sì che il giocatore possa fare bene. Per Marcos Leonardo era fatta, doveva venire, la Roma è stata precisa e corretta. E’ in Brasile che non hanno fatto quello che dovevano fare. Lo volevano tutti, la Roma e Thiago Pinto avevano fatto un capolavoro chiudendo l’affare. Poi in Brasile non hanno onorato quanto accordato. Mancavano i dettagli più difficili e il ragazzo voleva venire qua“.
Questa Roma avrebbe avuto bisogno di un direttore sportivo con maggior conoscenza ed esperienza del calcio italiano?
“Lui ha uno staff abbastanza importante. Io sono molto positivo in merito a ciò che loro hanno costruito in questo periodo, sono molto attenti a determinate cose. Per me dobbiamo essere ottimisti per il prossimo futuro“.
Capitolo nuovo allenatore: Fabregas e Italiano le piacciono?
“Ci sono tanti allenatori in giro. Fabregas è un ragazzo giovane, ha una società nuova e che sta facendo bene. Anche Italiano sta facendo un grande lavoro. Ci sono tanti nomi, ognuno ha pregi e difetti: è difficile dirlo. Al di là di chi ci sarà in panchina, conta che giocatori prenderemo che giocatori rimarranno e chi vogliamo che rimanga. In base a quello poi si trova un allenatore che abbia un modello di gioco per una rosa come la Roma, non possiamo fare un cambiamento totale che comporterebbe ancora più tempo. Nessuno mi ha detto nulla sul nuovo allenatore, neanche Ranieri. E non saprei che idea avere sinceramente, non saprei dire un nome. Ancelotti è un vincente, gestisce bene l’ambiente. Allegri ha fatto tante cose, Sarri ha un bel gioco. Pioli ha fatto bene gli ultimi anni in Italia, ora è in Arabia. Sicuramente sarà uno che conosce il calcio italiano“.
Soulé è stato pagato troppo?
“E’ stato pagato quanto valeva. E’ bravo, ma è arrivato in estate. Ci vuole tempo. Roma non è il posto più difficile dove adattarsi, ma è sempre un cambiamento e ci vuole tempo. Ovviamente se paghi 30 milioni un giocatore le aspettative sono alte, ma il giudice è il campo. Il ragazzo sta facendo quello che può, conosciamo le sue qualità e magari adesso le sta esprimendo meglio. Non è mai una questione individuale, ma anche di squadra e di allenatore. Un giocatore non è solo quello che va in campo la domenica, ci sono un sacco di cose dietro e a volte le persone se ne dimenticano: per fare il salto ci vuole tempo“.
Da che cosa può dipendere la mancata continuità di Dovbyk?
“Partiamo dall’inizio. De Rossi aveva una mentalità e un tipo di allenamento, Juric un’altra mentalità e un altro tipo di allenamento, Ranieri ancora un’altra mentalità e un altro tipo di allenamento. Devi essere bravo e sveglio a imparare subito, poi ci sono delle scelte. Ci sono giocatori più svelti a capire situazioni e movimenti, altri meno. Quello che la squadra ha fatto quest’anno con Ranieri, dopo l’inizio della stagione e al di là delle scelte che a noi da fuori possono piacere o meno e che vanno comunque rispettate, è qualcosa di ottimo. Alla fine la strada è stata trovata e i giocatori si sono adattati“.
In Europa c’è uno stadio, una tifoseria, che l’ha lasciata a bocca aperta?
“Abbiamo fatto una partita, se non mi sbaglio, contro il Panathinaikos. Mi sono anche fatto male. C’era Ranieri. E’ stata una follia. Non riuscivo a parlare con chi era a cinque metri da me. Era pazzesco. Anche a Dortmund, lo stesso Olimpico, Genova, San Siro: sono stadi piacevoli in cui giocare. Prima della partita all’Olimpico, quando c’è l’inno, accade qualcosa che non si trova da nessuna parte del mondo: è da brividi“.
Ha mai discusso con qualche ex compagno, in generale?
“Sì, per vincere, una discussione per correggere qualcosa. A Trigoria ho vissuto delle cose che mi hanno fatto molto male ma ho chiuso definitivamente, non sono andato a discutere. Nella discussione ognuno pensa di avere ragione: nella vita c’è la mia versione, la tua e la verità. Quando sei a posto con la coscienza vivi tranquillo, non possiamo sprecare tempo e non avrà il mio tempo chi non lo merita“.
Dove può migliorare Svilar?
“Sono contento di Svilar, a volte dobbiamo fare ragionamenti diversi. E’ un grandissimo portiere, che possa migliorare è sicuro ma se rimane lo Svilar che è oggi rimane un grandissimo portiere. Oggi il calcio è molto veloce e molto fisico. Le uscite sono una delle cose più difficili, devi fare dei calcoli veloci avendo velocità e tempo. Non è mai semplice oggi, non è il calcio di una volta. Fare analisi su aspetti singoli non serve, è impossibile essere perfetti in tutto. Non ho mai parlato con lui, ma lo vedo e ha una testa micidiale. Quest’anno si è confermato tecnicamente bravo e forte di testa, arrivare è molto difficile ma rimanere a quel livello è ancora più difficile perché ci sono tante variabili coinvolte“.
Che portiere era Alisson rispetto a Szczęsny?
“Per me Spalletti ha fatto la scelta giusta, facendo giocare Alisson in Coppa. Era sicuramente già fortissimo, ma gli è servito per imparare il calcio italiano, i tempi e la tecnica. Anche questo lo ha fatto diventare uno dei portieri più forti al mondo. Chi prendo tra Doni, Julio Sergio e Alisson? Alisson. Tra Doni e Julio Sergio? Me stesso“.
Scommetterebbe un euro sulla Roma in Champions?
“Un euro sì, perhé voglio che succeda. Cento no. Il problema non è dove siamo ma da dove siamo partiti. Sono fiducioso“.