Certe date non hanno bisogno di spiegazioni. Basta pronunciarle, e il cuore fa il resto. Il 25 aprile, giorno dolce amaro tra un ricordo di Roma-Dundee e quella maledetta doppietta di Pazzini. Del 30 maggio non c’è bisogno di parlarne, nel ricordo di DiBa e di una Coppa Campioni persa. Poi c’è il 17 giugno del 2001, terzo scudetto, ma prima c’è l’8 maggio 1983. Chi c’era lo sa, chi non c’era ne ha sentito parlare come di un giorno mitologico. Roma si fermò. E non per paura, ma per amore. Perché in quel pomeriggio di sole, la Roma di Liedholm, di Falcão, di Di Bartolomei, di Conti e Pruzzo, scrisse la pagina più bella della sua storia moderna. Campioni d’Italia, per la seconda volta. La Roma disegnata e perfezionata da Dino Viola, l’Ingegnere che decise di contrapporre una squadra fortissima all’egemonia della Juventus dell’Avvocato.
E io c’ero. Anzi, c’eravamo. Noi romanisti, figli di una fede che spesso aveva il sapore della sofferenza, ci svegliammo quella mattina con il cuore gonfio d’ansia e speranza. Lo scudetto, ormai a un passo, ci sembrava ancora un miraggio. Perché la Roma ti insegna a non dare mai nulla per scontato, neanche la felicità.
Si giocava a Genova contro il Genoa di Gigi Simoni. Bastava un punto. E alla fine arrivò proprio quel pareggio che serviva: 1-1, con il gol decisivo di Pruzzo, il Bomber. Ma il vero boato, quello che fece tremare i sanpietrini, non venne dallo stadio. Veniva da Roma e fu un’ovazione collettiva. Fu come se la città avesse trattenuto il fiato per 41 anni, dai tempi bellicosi e in bianco e nero di Campo Testaccio, e ora finalmente potesse gridare al cielo tutta la sua gioia.

L’8 maggio 1983 non è solo una data, è un’identità. Da quel giorno non siamo stati più solo tifosi: siamo diventati testimoni. Testimoni di un’impresa, di una Roma che giocava a memoria, che palleggiava come una sinfonia e che aveva in panchina un saggio nordico dal sorriso gentile, il Barone Liedholm. Un uomo che ci aveva promesso lo scudetto, e ce l’aveva regalato con eleganza.
A distanza di 42 anni, quella giornata è ancora viva. La ricordiamo nei racconti, nei poster ingialliti, nei cori che intoniamo ancora allo stadio, nei bar più antichi dove qualche poster ancora celebra quegli uomini. La ricordiamo ogni volta che vediamo quel tricolore cucito sulle maglie del passato e sogniamo di rivederlo su quelle del presente.
Perché Roma è questo: una città che aspetta, soffre, ama. E che quando arriva il momento, sa far esplodere un amore che non ha pari. L’8 maggio 1983 è stato il giorno in cui non ci siamo più sentiti solo tifosi. Ci siamo sentiti eterni, come questa città.