Chissà se il Ministero della Solitudine, istituito in Giappone un anno fa, tenderà una mano anche a Mitoma, Minamino e capitan Yoshida, i tre samurai blu che si sono buttati ai calci di rigore, cadendo nel buco nero: il c.t. Moriyasu si inchina davanti ai tifosi, Mitoma con gli occhi gonfi di pianto parla a testa bassa, davanti a una foresta di microfoni, singhiozzando e asciugandosi il naso per dieci minuti. Istantanee della composta disperazione giapponese: «Ma non si può diventare supereroi in una volta sola, il futuro è luminoso» chiosa l’allenatore che fa vedere i cartoni ai suoi giocatori. Il gol che manda la Croazia ai quarti con il super Brasile lo segna l’atalantino Mario Pasalic, che in Qatar realizzò anche il penalty decisivo per il Milan nella Supercoppa contro la Juve nel 2016. Uno specialista. Come Dominik Livakovic da Zara, che ne para tre (su quattro) diventando il terzo della storia a riuscirci in un Mondiale dopo il portoghese Ricardo, che fece l’impresa a mani nude nel 2006 contro gli inglesi e il connazionale Subasic nel 2018 contro la Danimarca, proprio agli ottavi. La Croazia — che ai rigori ha vinto ai Mondiali 3 volte su 3 e incalza il record tedesco di 4 su 4 — riattiva quindi la stessa modalità che l’aveva condotta in finale a Mosca, battendo ai rigori anche la Russia ai quarti e poi l’Inghilterra ai supplementari in semifinale: un calcio cerebrale, calcolato, solo a tratti cristallino, ma sempre lucido, fino all’ultimo tiro.


E il suo portiere prima o poi in Ministero forse ci finirà, perché Livakovic gli studi di Scienze diplomatiche li ha solo sospesi, in attesa di ripercorrere le orme del padre, segretario di Stato per le infrastrutture e i trasporti. Certo, dopo aver approfittato dell’incrocio coi giapponesi arrivati primi nel girone di Spagna e Germania, la squadra di Modric non sembra all’altezza dei brasiliani («Ma non sottovalutate mai un croato» avverte il c.t. Dalic), soprattutto al centro dell’attacco, dove si alternano Livaja, Budimir e Petkovic, tutti passati per l’Italia senza lasciare grandi ricordi. Livaja, etichettato come testa calda, è l’unico che sbaglia nel finale, calciando il rigore sul palo. Ma il granata Vlasic e l’interista Brozovic, prima di Pasalic, sono perfetti.

 
 

Al Giappone resta un senso di colpa peggiore delle altre tre sconfitte agli ottavi: «Il muro che tormenta il nostro calcio» come lo aveva definito l’ex interista Nagatomo alla vigilia, è sempre quello del pianto: dopo il k.o. al 94’ con il Belgio quattro anni fa (da 2-0 a 2-3), la squadra di Moriyasu che aveva sempre sfruttato i cambi e aveva lasciato il pallone agli altri, prepara una strategia diversa, lanciando il risolutore Doan per la prima volta dall’inizio. Ne esce una partita bloccata, perché Dalic non ha intenzione di scoprirsi di fronte alle folate che hanno mandato gambe all’aria Flick e Luis Enrique. Quando succede, in effetti è un piccolo brivido e a fine primo tempo Maeda da pochi passi su sponda di Yoshida segna l’1-0. La Croazia è quasi solo Perisic e il giocatore del Tottenham di testa su cross di Lovren pareggia a inizio ripresa, facendo capire al Giappone che la strada è in salita. E lassù in alto, quando manca l’aria e la pressione sul dischetto ti schiaccia, bisogna saperci stare.